I giorni dello scudetto,i meriti del presidente

Viola, il fuoriclasse

Romanista da sempre, terzino della squadra universitaria, aveva sempre realizzato ciò che aveva desiderato. Volle e vinse anche lo scudetto. Facendo rabbia a Boniperti

Dino Viola è morto il 19 gennaio 1991. Un anno dopo, nel giorno del primo anniversario della sua scomparsa, un giornale torinese che contro Viola aveva condotto accese battaglie, titolava su nove colonne: «Roma ricorda e soffre». Sono trascorsi altri tre anni e più: e Roma ricorda e soffre.
Dino Viola non è stato soltanto il presidente dello scudetto, è stato il leader della grande sfida alle tradizionali potenze del calcio italiano: al Nord ammiravano Falcao, ma temevano Viola. I primi anni Ottanta sono stati trionfali per la Roma: seconda nell' 81, ma solo per quel gol segnato (Turone) e mai concesso, in realtà la Roma quell' anno aveva vinto il titolo; terza nell' 82, prima nell' 83, seconda nell' 84. La Roma quindi non era un bagliore, una meteora, uno sfizio del campionato: come erano stati il Cagliari e la Lazio,come sarebbe stato anche il Verona. La Roma era leader storica, insieme alla Juventus. In quegli anni, i successi politici (intesi in senso sportivo) ottenuti da Viola, sono stati perfino superiori a quelli agonistici: le sue battaglie furenti e le sue polemiche corrosive, il suo assedio al Palazzo, che aveva scavato una trincea per difendersi dall'ingegnere e dalle sue cannonate devastanti sul fronte dei regolamenti e della loro interpretazione, sono stati i momenti più caratterizzanti di quegli anni. La Roma era una spada di Damocle che pendeva sul calcio italiano: in una solenne invocazione di giustizia prima, poi pian piano in una sorda speranza di vendetta: gli ultimi anni sono stati ambigui. Ma sempre, se l'ingegnere si muoveva, qualcuno tremava. Un giorno Umberto Agnelli ha detto: «Che bravo Viola, ha vinto metà degli scudetti della Roma». Cioè uno solo: era una discreta battuta. Ma quando Boniperti ha voluto gigioneggiare con la storia dei centimetri, ci ha rimesso le penne nelle quali si pavoneggiava. Era stato dimostrato, attraverso nuove tecnologie, che il gol di Turone era valido. La Juve, come si dice a Roma, aveva «preso d'aceto» e proibito a tutti i suoi tesserati di partecipare a trasmissioni TV: la società bianconera aveva rivelato, attraverso questi atteggiamenti, una colossale coda di paglia. Un'altra contestazione del genere si era avuta i una successiva sfida tra Juve e Roma, e Viola aveva commentato, un po' acido: "E' sempre questione di centimetri". Boniperti, che è geometra gli aveva inviato un righello accompagnato da un biglietto: «Così puoi misurare meglio i centimetri». E Viola aveva risposto con un altro messaggio scritto: «Grazie per il righello, ma è uno strumento adatto più a un geometra come te, che a un ingegnere come me». Le cose procedevano con questi toni.

La vocazione romanista

Poi Viola si è trovato in difficoltà e ha cominciato a deragliare, commettendo spettacolari errori come quello che provocò il «caso Vautrot», e come la carnevalesca storia delle pillole dimagranti di Peruzzi e Carnevale: tutte cose che vedremo. Ma questo già il momento ultimo e basso della sua presidenza, l'epoca tormentata della sua ribellione ad un declino che gli appariva inevitabile. Gli anni del successo, sono stati irresistibili, e sono stati lunghi. Pochi sono riusciti a capirlo, e ad arrivare al suo celato bisogno di amicizia. Innamorato di se stesso, Viola poteva apparire altero, beffardo e sprezzante. Ambiva a trasformare ogni parola detta in una sentenza, e allora è nato il «violese». L'ingegnere preferiva esprimersi per sottintesi, con allusioni e metafore. Apriva un discorso e lo chiudeva, lasciava uno spiraglio nel quale bisognava intrufolarsi: lui restava a guardare, divertito. Sfoggiava un senso ironico che non possedeva, quindi artificioso e spuntato: le sue battute erano spesso controproducenti, e tanti equivoci hanno provocato. Era colto, aveva un naturale aristocratico sul quale non indugiava, la sua cordialità era sincera. Gli piacevano tanto, invece, gli atteggiamenti enigmatici: e avvertiva dietro di sé, ma solo lui, una inebriante sensazione di mistero.

Stravagante, insofferente

Adino Viola detto Dino, amava dare un'origine romantica alla sua vocazione giallorossa: giovinetto, aveva visto un corteo romanista sfilare sotto le finestre della sua casa: e si era innamorato di quelle bandiere, era rimasto colpito da quegli entusiasmi. Ecco come lui amava raccontare se stesso.
«Mio padre era impiegato delle ferrovie ad Aulla, provincia di Massa e Carrara. Lui e mamma misero al mondo dieci figli, tre morirono in tenera età. A nove anni, mi fu chiesto in quale città preferivo studiare, e io dissi Roma. Andai ad abitare in via Machiavelli 9, angolo con via Merulana: si prendeva cura di me una nobile signora vedova. A San Pietro in Vincoli mi laureai in ingegneria meccanica industriale».
«Mio fratello Ettore, il più grande, Medaglia d'Oro in guerra, era proprietario di un cinema a Città Giardino. Implacabile antifascista, fu costretto a riparare all'estero, andò in Cile; lo, a diciassette anni, assunsi la gestione del cinema. C'era anche l'avanspettacolo, e tra gli entusiasmi dei miei compagni di liceo riuscii a scritturare Reginella, una delle artiste più celebri del momento, poi diventata moglie di Aldo Fabrizi. Ecco perchè ingaggiare Falcao è stato per me uno scherzo».
«Frequentai l'Accademia Aeronautica di Firenze, durante la guerra, e ne uscii con il grado di sottotenente. Questa esperienza e la laurea in ingegneria mi permisero di entrare alla Piaggio come ufficiale collaudatore: ho cominciato così. Scaduto il contratto con la Piaggio, mi trovai in difficoltà. Fu un momento difficile che si risolse quando un amico, molto più anziano di me e alla ricerca di un collaboratore fidato, mi propose di entrare nella sua industria meccanica di Castelfranco Veneto. Posi come condizione di poter agire con pieni poteri, e nel giro di qualche anno l'azienda, che contava poche decine di operai, arrivò ad avere oltre 1500 dipendenti. Hanno scritto che sono un fabbricante di cannoni: la nostra era un'industria meccanica che produceva tutto quello che il mercato richiedeva, e vari governi europei ci hanno onorato con importanti commesse, tutto qui».
«Sono romanista da sempre, da quando giovinetto vidi sfilare quel corteo. Ho giocato al calcio, ero un ottimo terzino della squadra dell'Università. Silvio Piola mi propose un provino con la Lazio, ma io non volli cambiare colore. Risparmiavo sui soldi che mi mandava papà studiare, e andavo a vedere le partite della Roma: non ne ho mai persa una. Per la Roma ho dimenticato il Genoa, la cui leggenda da bambino mi affascinava: ecco perchè non c'è romanista più romanista di me». «Il mio carattere un pò scontroso deriva dalla solitudine come scelta di vita. L'unica persona con la quale discuto di tutto è mia moglie Flora. Altrimenti chiedo consiglio, poi decido da solo: e non decido mai in modo umorale, la mia filosofia è il dubbio. Non mi attribuisco qualità esaltanti, sono abituato a pagare a caro prezzo i miei errori, ma ho il vanto di avere realizzato tutto quello che nella vita desiderato: compreso lo scudetto. Volete sapere com'è Viola? Vi accontento: atipico stravagante, insofferente».

Tratto da La mia Roma del Corriere dello Sport

 

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